Rosetta Menarello | Racconti

 

IL QUADRO

La finestra incorniciava il gatto accovacciato sul davanzale mentre il cielo, d’un grigio azzurrino, gli faceva da sfondo.
L’autunno era ormai avanzato. Le giornate brevi e sempre più fredde impedivano ad Anita di uscire.
Forse era meglio così, perché il silenzio che la circondava in quella grande casa le comunicava un senso di riposo e favoriva lo scorrere dei pensieri e dei ricordi in modo fluido e gradevole, tanto da darle talvolta l’impressione di assistere ad un film.
Cenere era il suo gatto. Si chiamava così per via del colore: un bel grigio uniforme e morbido nel quale si aprivano due occhioni verdi e talmente sgranati da sembrare una costante esclamazione di fronte a ciò che aveva intorno.
Cenere amava stare in giardino, forse per divertirsi a cacciare i passeri che, appena lo avvistavano, si agitavano in voli disordinati scomparendo tra i rami quasi spogli.
Lui allora sdegnoso saltava sul davanzale, al riparo dal vento, aspettando che Anita gli aprisse la porta per farlo entrare in casa. Ora quegli occhi verdi variegati di pagliuzze marrone scuro erano lì a scrutarla con il segreto desiderio di leggerle dentro, nel cuore chiuso come uno scrigno, sepolto come un tesoro che l’isola della sua casa era diventata.
Lei era come quelle strane creature di antiche fiabe che vivevano isolate e solitarie, appesantite da cattive dicerie, costrette a stare lontane perché non avevano il coraggio di lottare per riscattare la loro soffocata umanità.
Gli occhi di Cenere divennero i cerchi concentrici e ondulati sull’acqua del laghetto.
Pluf, pluf… i sassolini lanciati dai bambini dalle rive creavano segni di figure in realtà mai nate perché già disfatte nel momento in cui si delineavano.
Tra i piccoli c’era Gabriele: vivace ed intelligente che faceva da “capo”. Lui guidava la piccola comitiva all’esplorazione del parco della villa.
Anita ne era la proprietaria ed i bambini venivano di nascosto irrompendo da uno squarcio nella recinzione per cercare nidi sui rami più alti o per giocare sulle rive del laghetto al centro della massa verde. Lei, la signora, fingeva di non vedere quella combriccola che sgattaiolava tra l’erba e diventava una manciata di coriandoli colorati lanciati sul prato.
Quando li vedeva, aveva un balzo nel petto: erano i figli che lei non aveva; erano le voci della vita che non erano venute a bussare alla sua porta…
Era vissuta in quella casa, rispettata dai dipendenti che ne riconoscevano le inossidabili qualità organizzative: una piccola regina in un “feudo”, che da decenni era il cuore del paese.
Un giorno s’era incuriosita all’entrata furtiva dei ragazzini e di nascosto si era avvicinata per osservarli: voleva sapere cosa li incuriosiva della villa e del parco.
Arrivata vicino al laghetto s’era nascosta dietro un cespuglio d’alloro…
Aspettò… Sentì le voci lontane avvicinarsi sempre di più. Non erano in tanti. Sbirciò tra le foglie: erano in tre. Riconobbe Gabriele che teneva tra le mani una canna da pesca mentre gli altri due lo seguivano con i barattoli delle esche.
Il ragazzino aveva lo sguardo aperto, gioioso ed evidenziava negli atteggiamenti e nelle parole un già ben definito temperamento, dato che gli altri sembravano pendergli dalle labbra.
Quando la canna fu pronta, il ragazzino la calò con gesto sicuro.
Anita, presa da uno strano impulso, uscì dal suo nascondiglio.
Il suo sguardo incontrò quello del bambino che si rabbuiò di colpo gridando: – La strega! Scappiamo ci ha visti! –
Anita si sentì allora al centro di un deserto. Lei era una di quelle pietre nate dall’agglomerarsi dei granelli soffiati dal vento. Fu allora che il cuore le si fece definitivamente scrigno.
Tornò lentamente sui suoi passi e percorse il viale d’ingresso. La grande casa la accolse come un protettivo grembo materno.
– Ora che hai chiuso la porta… puoi ascoltare il ticchettio del tempo: giorno, notte… luce, buio…
fluidi versati nel calice della vita…
La porta si era chiusa. Fuori il mondo, dentro lei.
Gli alberi si erano coperti di foglie per tante stagioni ed erano diventati gialli come tramonti autunnali.
Cenere sgranava i suoi occhi perennemente stupiti, incorniciato dalla finestra.
Aveva letto tantissimo accanto a quel quadro naturale.
Le parole scritte da altre persone entravano nello scrigno del suo cuore lasciandovi un’impronta dapprima appena accennata, quasi impercettibile, poi sempre più profonda.
Era entrato in lei un desiderio lieve e poi struggente di conforto che saziasse la solitudine.
Erano passati tanti anni dal giorno in cui Anita aveva incontrato i ragazzini, ma gli occhi impauriti ed al tempo stesso decisi di Gabriele le erano rimasti nella mente.
Fu sfogliando un quotidiano che ritrovò quello sguardo: il titolo a grossi caratteri la colpì. “Gabriele Resi, un’esplosione di colori sotto cieli infiniti”. Era la denominazione di una mostra che si teneva in una vicina città.
Decise incuriosita di andare a visitarla. Si vestì con una cura da tempo dimenticata e si recò alla galleria citata nell’articolo.
L’esposizione era allestita in un antico palazzo del centro storico.
Entrò prendendo dal tavolino all’ingresso un dépliant nel quale erano sottolineate notizie sul giovane autore.
L’atmosfera era raccolta e le luci sapientemente posizionate davano all’ambiente un’impronta rilassante ed allo stesso tempo attraente.
Anita percorse l’itinerario della mostra con crescente entusiasmo.
Quei quadri le davano un forte senso di dimenticata serenità.
Gli spazi sembravano uscire dalle tele per farsi: cielo, prati fioriti, alberi dai rami aperti all’entusiasmo, al grido di gioia che anima la vita.
Poi lo stupore improvviso ed inatteso la fece scoppiare in una risata liberatoria…
L’ultimo quadro rappresentava un laghetto. Vicino alla riva s’infoltiva un cespuglio dal quale si vedeva spuntare una donna tale quale a lei. Il titolo: LA STREGA (ricordo d’infanzia).
Al suo improvviso ridere alcuni dei visitatori si voltarono verso di lei.
E tra quegli occhi riconobbe quelli di Gabriele! Ora era un giovanotto che le tendeva la mano sorridendo.
– Le piace? Non si offenda per il titolo, signora! In quel quadro c’é un po’ del mio mondo infantile, di quello che ho lasciato al paese dopo che mi hanno costretto a vivere in città. I miei lavori sono tutti figli di quella nostalgia cronica che si é insinuata nel mio cuore al momento del distacco dal mio ambiente. Il giardino della sua villa, il laghetto, gli alberi sui quali ci arrampicavamo sono sempre presenti nei miei lavori e quel cielo é come il mio grido di libertà! –
Anita sorrise: – Posso acquistare “LA STREGA?” Lo vorrei perché mi piace. Sono proprio io! Una vecchia noiosa che impaurisce i bambini! Il giorno in cui siete scappati mi ha fatto riflettere perché ha confermato la mia natura così scontrosa e solitaria e da allora sono vissuta avvolta nella tristezza, volontariamente incapace di mescolarsi agli altri aprendo questo cuore-scrigno e prigione!
Il quadro é un segno al quale devo una risposta! –
Gabriele era stupito, impreparato ad una considerazione simile, semplicemente per un quadro!
Poi tutto gli fu chiaro: ogni fatto é parte di un disegno, di un’armonia che a volte diventa… disarmonia scolorandosi nelle tristezze della solitudine.
Anita gli strinse la mano e chiese che il dipinto fosse incartato e spedito a casa sua.
Da esso era uscita la sua anima ritrovata.
Lo scrigno si era piano aperto per mostrare i luccichii del piccolo tesoro che conserviamo nel cuore…

Il cielo si fece vela
e navigò verso l’infinito
rubando l’aquilone
della nostra anima.

E’ forse Dio il bambino
che lo tiene
per un filo invisibile
affinché non si perda?

 

 

IL RAMO SPEZZATO

Il tronco dell’albero gli stava di fronte; accarezzarlo veniva istintivo, ed era un necessario contatto fra creature, fra esseri che si dividono lo spazio vitale e si fanno avvolgere il corpo dall’aria o dal sole di ogni giorno. La mano di Giovanni percorreva la corteccia con la dolcezza di chi sfiora affettuosamente un volto amato. Il muschio fresco e vellutato gli dava un senso di quiete, un attimo di serena distensione che egli avrebbe voluto si prolungasse per l’eternità.
– Dio, toglimi il tormento! Ti prego! Fa che sia l’ultima volta e poi…-
Intorno, il bosco si lasciava illudere dai languori autunnali ed abbandonare giorno dopo giorno i ricordi estivi per immergersi nei rossi sanguigni dei tramonti che solo questa stagione sa offrire ad ogni fibra delle creature.
Giovanni avrebbe voluto essere a casa, finalmente a casa sua, sul suo letto bianco, chiuso nella sua stanza per sentire solo le voci dei suoi cari, di quelli che in questi anni aveva piano piano dilaniato e allontanato da sé.
Il nonno gli era davanti, vecchio come quest’albero…il muschio era la sua barba, i segni sulla corteccia gli stessi che le rughe gli scrivevano sul volto.
…E la mano del nonno ora prendeva la sua come nelle giornate d’inverno bianche e silenziose. Insieme andavano per i campi e giocavano ad indovinare le forme nascoste di una zolla o di un sasso sotto la neve e ripeteva a lui bambino le filastrocche del chicco di grano o il vecchio detto popolare: “Sotto la neve pane, sotto la pioggia fame!”.
Forse era stato per questa neve che, inverno dopo inverno, s’era fatta vedere sempre più di rado per non cadere quasi più che i campi prima coltivati dal nonno, non diedero più pane sufficiente alla famiglia ed il padre di Giovanni era stato costretto ad abbandonare il paese per cercare lavoro a Milano. Lui bambino ricordava a malapena quel giorno. Il distacco del cuore però c’era stato: qualcosa era venuto a mancare: si era spezzato un ramo vitale dell’albero…
Spesso nei suoi sogni notturni tornava la vecchia casa del nonno… e Giovanni ridiventava protagonista diafano ed irreale di realtà mai vissute eppure impresse nel cuore da chissà quale misterioso intrecciarsi di emozioni.
Un fremito febbrile ora gli scuoteva il corpo e la vista si offuscava tanto da toglierli l’equilibrio. Era istintivo abbracciare questa corteccia, stringerla come aveva fatto con lui sua madre l’ultima volta che l’aveva vista e … fatta soffrire!
“Basta Giovanni, basta! Torna con noi, non possiamo vivere senza di te!”
Poi la sua voce si era trasformata in pianto e quell’amore da tanto represso era diventato un abbraccio per questo figlio troppo presto sparito dietro il sipario di una vita non ancora recitata.
“… Ninna nanna ninna o… il mio bambino a chi lo do!…”
Mamma buona dal profumo di cose pulite e dalle mani che sapevano rendere bello il mondo.
Bella la mattina dall’indimenticabile profumo di caffelatte, bella la giornata ad ascoltarla mentre parlava o cantava con quella voce un po’ infantile le canzoni che le piacevano da ragazza. Tutto intorno a lui aveva avuto un’impronta d’amore, di bene… Allora perché adesso era qui, ormai cieco alle cose che gli avevano insegnato a conoscere e ad amare? Era il perché che si era posto infinite volte e la risposta non era venuta!
Amici forse? Troppi, fradici già da piccoli di un senso d’angoscioso del negativo; pregni d’una morte prematura dell’anima; capaci d’una fugace voglia di vivere che si manifestava in sfrenati ed improvvisi desideri da realizzare subito: calici da bere in fretta, senza esitazioni per vedere subito il fondo. E questi amici s’erano impadroniti della sua vita. La sua sete di uscire dal guscio familiare l’aveva aggredito in modo totale, univoco.
Le corse in moto, l’aria che ti stringe, ti accarezza, t’inebria: il mondo ti viene incontro, è tuo!
Era una realtà nuova, da catturare, da assaporare, da far entrare in tutto il corpo.
Piano piano la famiglia, la scuola, gli affetti erano passati in secondo piano, sfuocati da questo nuovo vivere che lo aveva stregato.
La mamma che lo vedeva rientrare alle due di notte e suo padre alienato dai turni di lavoro era troppo stanco per intervenire.
Così passava il tempo e si consumavano i giorni e i mesi.
Venne la bocciatura e per sedare la delusione un viaggio in tenda lungo le coste italiane.
Con gli amici godette il mare: nuotate, giochi, serate in discoteca ad ubriacarsi di decibel tra amori d’una sera.
Forse era così la vera giovinezza ed era anche piacevole galleggiare nella coppa di spumeggiante champagne biondo che essa offriva.
Forse i genitori pensavano alla crisi naturale che conduce all’età adulta.
“Passerà, passerà” pensavano.
Sarebbe passata certo se una sera non fosse arrivata sulla spiaggia quella presenza serpeggiante del fumo di spinello. Per Giovanni era l’inizio di un nuovo vivere. Lentamente gli parve d’entrare in un quadro surrealista. S’immerse nei rossi dell’eccitazione, nei gialli della collera per desiderare i blu di una quiete più immaginata che raggiunta.
Lui bello e sano aveva conosciuto il degrado della malattia. Da tempo non si guardava più allo specchio e non si toccava gli pareva di toccare un altro. L’equilibrio s’era interrotto e chissà dov’era volata la sua anima!
“Ninna nanna dormi piccino della mamma…”
Voglia di dormire nel profumo della sua camera di sognare sua madre, suo padre…il nonno. Nel parco s’era fatto ormai buio, o forse era il suo cervello a chiudere gli occhi per sempre. La corteccia dell’albero gli grattava la guancia. Ora le gambe non lo reggevano più e desiderò diventare come queste radici nascoste nel nero della terra.
La vista pareva liquefarsi e si lasciò andare a questa sensazione mista di quiete e atroce disperazione. Per un attimo capì chiaramente che stava morendo.
Ebbe un senso acutissimo di felicità e sentì stretta nella sua la mano di sua madre forte e rassicurante.
Era lei che lo accompagnava sul prato fiorito dove il sole splendeva e l’aria avvolgeva il corpo e l’anima.. In fondo al prato sorgeva una casa. Lui e la madre vi si diressero e man mano che s’avvicinavano Giovanni s’avvide che era quella del nonno dove era iniziata questa sua vita diventata troppo presto disperazione.
La sorpresa lo indusse a staccarsi dalla madre per mettersi a cercare: forse là avrebbe rivisto anche il nonno.
Correva e sentiva la libertà invadergli il corpo. Affannato giunse accanto alla porta d’ingresso girò la maniglia per aprire. Lo spettacolo che si aprì davanti ai suoi occhi era lo stesso che la sera prima lo aveva indotto a fuggire per nascondersi a coloro che gli avevano distrutto la vita con la droga. Ragazzi agonizzanti sul pavimento, giovani che non avevano più sguardo. Vide se stesso steso a ricevere l’ultima overdose…
Un pittore surrealista toglieva loro il biondo dei capelli, il blu degli occhi ed il multicolore dei vestiti per farne pazzi quadri dai contorni sconnessi; gli stessi nei quali annegava nelle crisi di delirio…
Sogno o realtà? Si fatica a capire!
Giovanni abbracciò ancora quel tronco rugoso e i colori si fusero in un nero di notte…
CRONACA: Minorenne milanese rinvenuto privo di vita in un parco
della periferia. Causa del decesso: un’overdose d’eroina.

 

 

INFINITO

Quando piove, il cielo piange e le nuvole svuotano la loro anima di tutti i segreti che non si possono raccontare …
Morì suo padre e Anna si sentì così.
Il cuore del vecchio si fermò e il galoppare pazzo, che era stato il suo battito negli ultimi mesi di vita, si trasformò in silenzio.
Chi muore lascia il silenzio e la certezza che il guscio del corpo è ormai disabitato.
Resta lì immobile sul letto come una conchiglia abbandonata sulla spiaggia.
Si fossilizza come una malgama di roccia e creature marine fuse nella potenza della montagna con le mani immerse nel cielo.
Sofferenza lancinante prima ed inerzia dopo.
Dov’era andata la vita? Forse un po’ ne aveva dentro lei: si era distribuita in tutti quelli che lo avevano conosciuto.
Sentì nell’intrico dell’anima la sua presenza: lui la guardava da una radura fiorita. Forse le era entrato dagli occhi? Forse dalle orecchie? Forse anche da quella stupenda capacità che abbiamo: la memoria.
Come per magia ne era emerso un ricordo liquido e dolce, denso come il miele …
Suo padre giovane in bicicletta veniva lungo la strada bordata della siepe che portava a casa. Portava un pacco voluminoso e sorrideva. Anna si sentiva sempre intimorita da lui che era un padre all’antica.
C’erano però momenti rari ma intensi e per questo, indimenticabili, che rimanevano incisi nello scorrere del suo tempo come le tacche che certi prigionieri usano segnare nella cuccetta.
Quando fu nel cortile saltò giù dalla bicicletta: non aveva più il pacco ma le disse: – Guarda laggiù infondo alla siepe -. Lei corse e tra i rami folti di verdi vide il pacco. Da un buco dell’incarto beige sbucava una specie di manico rosa.
Una breve gioia, pungente come uno spillo, animò le sue mani. Con uno strappo dilaniò l’incarto e ne uscì, come da un magico uovo, una strana carrozzina di vimini dalle ruotine in legno.
Era davvero bellissima: era per la sua bambola.
Tutte le sue piccole amiche avevano una carrozzina per portare a passeggio la loro bambola ma non erano come quella che ora le aveva regalato suo padre.
Fu una delusione vedere la sua tanto diversa dalle altre.
Finse di essere felice.
Non ringraziò ma sorrise.
Per qualche giorno portò a spasso un bambolotto avvolto in una copertina e poi la dimenticò.
Sentì suo padre lamentarsi con una vicina.
– Non c’è tanta soddisfazione a regalare un giocattolo a mia figlia. E’ sempre meglio regalarle un libro -.
Era forse vero ma il ricordo di quella carrozzina poco gradita le rimase nel cuore come uno dei tanti momenti, svuotati come parole mai dette, cristallizzate, diventate anno dopo anno sassi accumulati nell’anima.
Poche ore prima della morte di suo padre fu come se queste pietre si fossero smosse; avessero franato. Avrebbero potuto diventare parole ma era troppo tardi.
Gli occhi del vecchio erano velati da una malinconia struggente; guardavano un orizzonte inesistente che forse si perdeva in quell’infinito che lui ormai desiderava raggiungere per andare oltre la sofferenza che aveva aggredito i suoi ultimi anni.
Lei provò un dolore inesprimibile, unito al ringhio dell’impotenza di fronte a tutto ciò che ormai non era più possibile fermare.
Lui era arrivato al suo traguardo.
Nella penombra della stanza impregnata di disperazione e di dolore si compiva il cammino del suo vecchio. Cristo verso la cima del Golgota.
Le parole pietra erano franate nel cuore di entrambi.
Anna capì in un momento che non c’era più tempo né per lei né per lui per lasciarle uscire.
Non bastava la vita: occorreva il tempo che non è più tempo.
Occorreva l’infinito che a ciascuno sarebbe stato concesso.
Lui certamente l’avrebbe aspettata … libero dalle parole-pietra che ad entrambi avevano fatto da diga all’amore inespresso durante la vita.
“… Ti darò la mano
dove il tempo non è
né giorno, né notte e
non aspetterò domani
per parlarti …
Così avremo parole senza parole:
fluide come il torrente
che supera i sassi e
gorgoglia i suoi sentimenti
fino all’infinito del mare.”
Con questo messaggio estremo uscito finalmente dal cuore di Anna, il corpo del padre se ne andò dalla casa.
Ripercorse il sentiero da cui era venuto tanti anni prima con la carrozzina-giocattolo poco gradita alla sua bambina …
Il vecchio, senza più la croce sulle spalle era felice: poteva respirare, lasciarsi trapassare dall’aria e dal verde.
Ora avrebbe aspettato Anna per dirle quanto l’aveva amata.

 

 

MESSAGGIO DI UNA CONCHIGLIA

Il tramonto diluiva i suoi colori sul mare e all’ orizzonte le pennellate si facevano smisurato abbraccio digradante in sfumature dal rosso, all’ arancione , al giallo…
“Keo, keo!” gridavano i gabbiani rompendo il ritmo della risacca.
Chiara, a piedi nudi sulla battigia, seguiva con lo sguardo il lambire discreto della spuma che solleticava le dita, invitandola a guardare, ad ascoltare, a camminare sul movimentato andirivieni delle onde.
Quella era l’ ora più bella.
I bagnanti avevano lasciato la spiaggia che ora finalmente ritornava al vento, al cielo, ai gabbiani testimoni della straordinaria magia che si rinnova alle ore del tramonto.
A Chiara piaceva fare il gioco quando, come in questo momento, era sola.
Immaginava di essere in un’ isola sconosciuta diventando una specie di Robinsson Crosue scampato da un naufragio.
Così si guardava intorno con occhi nuovi e reinventava tutto ciò che le era abituale.
Si divertiva a pensare che, ad ogni angolo del suo mondo, ci sarebbero state nuove realtà a lei sconosciute.
Quand’ era più piccola, sua madre le diceva: “con quella testa fra le nuvole, sicuramente un giorno finirai per sbagliare la strada di casa! E ti ritroverai in un’ altra città per aver preso il primo autobus che passa, senza guardare il numero!”
Le era capitato infatti, all’ uscita di scuola di salire su quello che portava in una zona alla parte opposta della sua.
E poi, siccome non aveva più soldi per un nuovo biglietto, era tornata a piedi, arrivando con un bel ritardo che infastidì anche il papà, di solito molto paziente.
Ora il tramonto era diventato una lunghissima striatura d’ acquerello rosa – arancione.
Un aereo passò altissimo lasciando la sua candida scia e rompendo con un arabesco la silenziosa tranquillità del cielo.
Con il fremito lieve della loro schiuma, le onde cancellavano le orme di Chiara sul bagnasciuga.
“E’il gioco del mare che si impadronisce dei miei segreti…” Pensò la ragazza “Chissà quanti ne conosce!”
Si chinò a raccogliere una conchiglia rosa dalla forma affusolata osservandone la semplicità e la perfezione.
La tenne stretta nel pugno e la sentì piccola ma forte…
Non era forse la figlia di quel mare che sa essere bello e orrido, dolce e rabbioso?
Dov’ è il limite tra la bellezza e l’orrore? Tra la dolcezza e la rabbia che ti squassa l’anima?
Lei era ancora molto giovane eppure si sentiva disorientata di fronte a quella realtà che rende incerti, a volte incapaci di reazioni adeguate rispetto alle persone e alle situazioni.
La piccola conchiglia che stringeva ora nella mano sembrava darle una risposta…

_Ascolta il vento dall’ invisibile saggezza…
Egli ha imparato dal mare
la forza di un urlo
e la soavità di un soffio.
Per questo può entrare nella tua casa…
Spalanca arrogante una finestra
ma può passare da una fessura
per poterti parlare…
per poterti bisbigliare
i mormorii della spuma
tra i granelli di sabbia.

Del tramonto non restava che il giallo pallido sulla linea dell’ orizzonte mentre il cielo si tingeva di un intenso blu cobalto.

Era ora di tornare a casa.
Quella sera sarebbe venuto a trovarla Enrico. Era forse lui il punto fermo della sua vita?
Sarebbe stata capace di essere quel confine tra serenità e rabbia, gioia e dolore, presente e futuro?
“Ho per te un piccolo regalo, Enrico!”
In una delle sue bizzarre scatoline chiuse la conchiglia perché aveva in sé i segreti del vento e la voce del mare che parlava di infinito

 

 

TORNARE …

La strada serpeggiava tra i campi, deserta e segnata da quella striscia d’erba continua lasciata crescere dal passaggio dei carri.
Lui camminava nell’autunno che già abbracciava l’erba, gli alberi, il cielo. Si sentiva totalmente parte di quell’atmosfera struggente, piena ancora di vita eppure preparata al riposo.
Camminava lento, per stanchezza, per decadenza fisica, per quel logorio di ogni fibra che da tempo ormai lo minava, lo scavava sgretolandogli il futuro …
Restava il passato, ombre, luci, giochi di chiaroscuri, voci e sguardi.
Da bambino il profumo del pane lo raggiungeva con un calore dolce nella stanza da letto popolata di fate gelate che s’aggiravano tutte le notti sulla trasparenza dei vetri.
La mamma veniva col latte, saliva silenziosa la scala di legno e sorrideva allo scricchiolio del pavimento di tavole scure.
– E’ la vecchia che porta i doni! Fai il bravo! –
I mandarini scendevano dal buio del camino e rotolavano sul pavimento della cucina.
Risate di bambini si mescolavano agli spruzzi di bucce sugli occhi.
Dolcezza di spicchi, succo che scendeva per la gola, ricordo del giorno della Befana passato ad entusiasmarsi di piccole cose che ora scorrono inosservate, quasi senza importanza.
Nelle notti fredde di luna piena la stalla era una casa calda.
Racconti e giochi s’intrecciavano nella fantasia, sceneggiati dalle ombre vaghe, mosse dal lumino della lampada.
Cielo dolce, infantile, vegliante sugli uomini addormentati. Natale bello, profumato di brodo caldo e agro di mandarini, lui aveva vissuto così, di poco, di cose senza tempo ma capaci di attecchire solo nei cuori umani.
Non era forse importante lui?
Nelle notti della guerra, non era stato un uomo importante? Ancora stelle, belle, tremanti, quasi impaurite sugli orrori di giornate passate a sparare, a sventrare case ed uomini. Il freddo delle notti in trincea era vero freddo, freddo di tomba dove stanno i vivi che possono morire fra un’ora, un giorno, domani stesso.
Neve sui loro corpi gelati dentro e fuori.
Sventagliate di mitragliatrici anche di notte, pianti lontani mescolati alle cannonate.
Purezza, quasi santità e neve, quasi pantano.
Quei contrari abbracciati in strane, assurde convivenze spesso inaccettabili dall’animo umano, eppure sopportate, vissute ogni giorno.
Lui era così adesso: disfatto in ogni fibra del corpo eppure capace di assorbire l’esterno, le atmosfere.
E quando queste gli avevano raggiunto il fondo dell’anima si sentiva disperato e felice.
Forse così poteva sentirsi vivo, anche per domani, capace di sperare, di credere che ancore sarebbe tornato un autunno così struggente.
Era arrivato accanto al vigneto.
I tralci vuoti di frutti dondolavano al saltellare di qualche passero.
In lontananza le masse scure degli alberi si stagliavano contro il rosso del tramonto: era una battaglia conclusa ma pennellata di colori vivi, vincenti.
E’ lui si sentiva così: stanco come un guerriero dopo il duello e vincente come il sole che domani sarebbe tornato e … tornare era importante.

 

 

VOLO DI FARFALLA

Quel giorno accadde un fatto speciale… una parentesi aperta e poi richiusa tra realtà e fantasia, tra felicità e dolore, tra vita e morte, tra luce e buio.

Ad una farfalla fu dato un dono particolare e per lei, che abitualmente viveva nella serena atmosfera di un prato, fu un vero miracolo: poteva volare sul pensiero degli uomini e sentire il vibrare delle loro emozioni condividendo, anche solo per pochi istanti, la voce dei loro cuori.

La farfalla si posò sulla mano di un bambino; ne percorse la delicatezza elegante dei contorni, vi assaporò l’entusiasmo della scoperta e la foga nel gioco. Ascoltò l’andirivieni ora concitato, ora lento ed evanescente dei sogni che si accavallavano nell’azzurro dello sguardo. Pianse sulle sue tristezze inespresse e sulle malinconie delle giornate in cui la sua voce non veniva udita e i grandi, dall’alto del loro mondo caotico elencavano principi, scolpivano regole, dettavano divieti e imponevano premature autonomie di tempi e di azioni.
“Sei grande ormai, devi, devi fare da solo!”
“Da solo, da solo, da solo…”
Era l’eco che sovente scandiva il passare dei momenti più innocenti sbriciolati sul mare di una diffusa indifferenza.
La farfalla vide arrivare la notte col suo mantello di silenzio.
Si sedette paziente al capezzale del piccolo e gli sussurrò all’orecchio le sue favole più belle. Il bambino si addormentò stringendo fra le dita la preziosa caramella del suo domani e lei continuò il suo viaggio volando sulle sbarre di una prigione.
Prima che potesse vedere distintamente fu catturata dagli occhi d’un uomo dal volto che pareva scolpito nella corteccia. Il tempo si era divertito a disegnare arabeschi e intrecci dalle angolature bizzarre.
Erano forse i segni di una vita di falsi incontri? Di amicizie nate nella iniziale speranza di creare qualcosa di nuovo, di diverso, distorto poi dal luccichio affascinante del denaro al quale ci si scaldava le mani ed il cuore?
Nell’incendio s’era arso questo cuore e la cenere fumava ancora allungandosi al cielo in un estremo e disperato tentativo di ricercare legami traumaticamente spezzati.
Dallo sguardo dell’uomo usciva una sottile invocazione.
Era come il pianto sommerso che scuote chi non vuole farsi vedere e desidera trasformarsi in un abbraccio dell’uomo col suo simile per sentirsi insieme più forti, più uniti, stagliati contro un tramonto che, dopo il buio notturno si anima nell’alba di un nuovo domani. Le mani del carcerato si unirono fino a formare una coppa e la farfalla andò a bere una goccia di quella speranza. Ebbe allora la forza di riprendere il volo…
Avvolta nel giallo della sua polvere impalpabile si posò sulla FAME di chi non ha pane da così tanto tempo da non ricordarne né la forma né il sapore.
Era la disperazione dei più poveri, di quelli che sfilano tutti i giorni davanti ai nostri occhi e ci chiedono, attraverso strazianti primi piani: AIUTO, AIUTO, AIUTO!
Erano davanti a lei le donne che immaginavano di offrire latte all’avida fame dei figli dagli occhi sgranati sulla disastrosa realtà che li destinava alla più crudele delle sorti.
Poteva vedere vecchi squassati dai tremiti della febbre e già rassegnati a prendere per mano la morte: era lei che presto sarebbe venuta a porre fine alle sofferenze di gente giustiziata dall’egoismo e dall’indifferenza.
La farfalla mescolò il suo giallo solare col grigio della polvere e della malattia: raccolse parole, voci, gesti, sguardi…
Volle continuare il miracolo che per lei era iniziato con questo viaggio.
Volò verso il cielo, si perse in quell’azzurro più grande di ogni sguardo e più sincero di ogni parola.

S’ubriacò di sole e finalmente si sentì vicino a Dio. Si posò sulla sua mano e raccontandogli quello che aveva visto, chiuse le ali in una preghiera.
———–
Conservo questa farfalla in una scatolina d’argento.
La sua voce è il bisbigliare del tempo,
il suo volo, la musica del silenzio.